PIETAS VULGARIS
Tracce di un culto popolare relativo alla cittadina di San Paolo di Civitate
Nella cultura popolare, la figura di San Paolo apostolo è spesso associata a culti e pratiche mistico-religiose. Questi culti sono esistiti in passato e persistono in parecchie realtà del sud Italia. La maggior parte di questi riti paolini riprendono il noto episodio evangelico di Malta in cui l’apostolo approdato sull’isola, dopo un terribile naufragio, viene accolto dagli indigeni intorno ad un fuoco acceso per riscaldarsi. “Mentre Paolo raccoglieva un fascio di saramenti e lo gettava nel fuoco una vipera, risvegliata dal calore, gli morse una mano.” Tra lo stupore delle persone presenti “Egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male”.
Tra i culti paolini più famosi c’è quello della “Taranta”, importante nella cittadina di Galatina.
A San Paolo di Civitate vi era qualcosa di simile, tramandata oralmente nel tempo e raccontata dal Rev.mo Mons. Domenico Niro. Con studi generali in merito, sono riuscito, tramite queste fonti e altre fonti storiche, a delineare i tratti di un culto popolare relativo al santo apostolo che verosimilmente, tra il medioevo e l’inizio del XIX sec. d.C. veniva praticato nel paese.
I serpenti in letargo, per lo più bisce, venivano presi dai contadini e portati in una fossa che si trovava nelle strette vicinanze della chiesa di San Paolo Apostolo, all’epoca ubicata fuori le mura nell’agro della cittadina. L’usanza voleva che i cittadini mettessero la mano all’interno di questa fossa, se non fossero stati morsi dai serpenti significava che avrebbero avuto la protezione del santo e che sarebbe stato un anno florido e privo di sciagure. Se invece fossero stati morsi bisognava preoccuparsi, perché l’accaduto non era di buon auspicio.
Il rapporto della popolazione con il santo è ambiguo perché la sua figura viene presentata tramite due piani simbolici differenti: da una parte il Paolo del racconto di Malta e dall’altra quello dei serpenti che mordono e rimordono, cercando così un equilibrio culturale senza riuscirci.
Il periodo estivo non è casuale. La documentazione diacronica dal 500 ad oggi, attesta concordemente che l’epoca di questi riti è la stagione estiva, dal principio di maggio a fine agosto, periodo in cui il veleno dei serpenti o dei ragni è più pericoloso. Inoltre i più antichi esegeti collegano questo fenomeno al raccolto, periodo in cui i contadini sono più esposti al morso di serpenti e tarantole. Ferdinando Pozzetti, medico diventato segretario apostolico nel 1499 e poi vescovo di Molfetta nel 1527, nel suo “ Libellum de venis” scrive :”Quando rustici deserunt sages quas colligunt”.
Il nesso tra rito e stagione estiva va valutato sul piano simbolico, in effetti nell’epoca compresa fra il Medioevo e il XVIII secolo d.C., l’estate afferisce ad una concretezza esistenziale nei corrispondenti quadri economici e sociali dominanti in Apulia e differenziati per luoghi e periodi. Sul piano economico in questa stagione veniva deciso il destino dell’anno, si colmavano i granai, le celle vinarie e si pagavano i debiti contratti durante l’anno precedente. Sul piano simbolico si trasfigura in un periodo in cui potevano essere ripagati anche i debiti esistenziali accumulati durante l’anno. In un regime esistenziale il morso costituisce una possibilità di riscatto e il non morso di speranza.
Naturalmente il morso dell’animale diventa trama di tessiture simboliche autonome a seconda dell’usanza del posto. Questi aspetti cultuali trovano antecedenti nella vita religiosa greca, di cui l’Apulia fu, come parte della magna Grecia, una provincia culturale. Questa eredità magico-religiosa è dominata dalla valutazione emozionale dell’animale che morde o avvelena sia esso una serpe, o ragno o cane rabbioso. Possiamo individuare, nella tarda letteratura greca, come questa osservazione naturalistica e mitica si intrecci. Il tema del morso nello specifico ricorre spesso come leggiamo nei frammenti di Eschilo o anche nei dialoghi platonici. I poeti e i pensatori sono importanti perché affondano le loro radici in un humus esistenziale del proprio mondo storico-religioso. La fine di questa pratica nell’urbe di San Paolo risale ai primi anni dell’Ottocento e ipotizzo che sia collegata a due fattori: l’indebolimento della devozione da parte della popolazione a San Paolo a favore di Sant’Antonio da Padova e il graduale processo di urbanizzazione delle aree circostanti le mura abbattute nel 1808 come ci ricorda lo storico Fraccacreta nel Teatro storico e topografico della Capitanata del 1834. Il 1808 può essere preso come data simbolica, con le dovute precauzioni tenendo conto della gradualità con cui queste tradizioni scompaiano o appaiano, come data orientativa per fissarne una fine ed un inizio perché sintomatica dell’avanzare dell’età moderna.
Concludo nel dire che attraverso questa storia
si spiega la presenza di due serpenti attorcigliati fra di loro sulla base del simulacro del santo del paese, testimoni immobili e manifesti di una tradizione persa nel tempo.
Autore: Giuseppe Ferri