Sant’Antonio e la festa degli emigranti sanpaolesi: un momento importante di partecipazione popolare
Care lettrici e cari lettori,
lunedì 16 agosto 2021, a San Paolo di Civitate, sul sagrato della Chiesa di Sant’Antonio si respirava aria di festa. Con il simulacro del Santo da Padova in prima linea, il parroco don Dino, attorniato dai chierichetti, dal coro di voci femminili e dalla banda diretta dal maestro Cristino Di Carlo, ha celebrato la messa in onore di Sant’Antonio per i sanpaolesi emigrati. Un momento importante di aggregazione popolare. Una tradizione nata sotto l’egida di don Camillo, quando il fenomeno migratorio degli anni Sessanta coinvolgeva molti compaesani a spostarsi verso le città del nord Italia: Milano, Torino e Genova, considerate i vertici del cosiddetto “triangolo industriale”; oppure verso il centro Europa, nel quadrilatero più famoso e più dolente dell’emigrazione italiana: Francia, Belgio, Germania e Svizzera. All’epoca, molti di loro non riuscivano a tornare a San Paolo di Civitate per il 13 giugno, motivo per cui don Camillo decise di istituire una celebrazione speciale del Santo durante le ferie agostane. Difatti, ancora oggi nei mesi estivi, tanti emigrati di prima o seconda, quando non di terza generazione, tornano a San Paolo di Civitate per trascorrere le vacanze.
In ognuno di loro c’è una storia, un’esperienza esistenziale e anche la voglia di dimostrare che ce l’hanno fatta, che anche loro oggi possono godere di una vita serena. Negli occhi dei più anziani c’è un po’ di nostalgia, ma anche la consapevolezza di essere riusciti a garantire un futuro migliore a sé stessi e ai propri figli.
Sulle sedie, che don Dino ha fatto predisporre (con il dovuto distanziamento sanitario) nella piazzetta antistante al sagrato, sono sedute tante persone desiderose di condividere la liturgia e anche quell’aspetto festoso che accompagna la cerimonia sacra. Don Dino è un officiante di razza, sa usare le parole giuste per l’omelia, sa fermare con uno sguardo chi sposta le sedie (come ho maldestramente tentato di fare io!), sa come dirigere le operazioni relative all’accensione dei fuochi d’artificio. E proprio durante lo scoppiettio pirotecnico, una serie di pensieri mi vengono alla mente. Penso a quel babbo che ha deciso di partire perché nel paese non c’era lavoro, a quella mamma che non avrebbe voluto che il marito partisse, o a quei bambini e a quelle bambine che da un giorno all’altro avevano dovuto salutare il loro babbo.
E penso che per tutti loro, per chi partiva e per chi restava, c’erano i treni, treni carichi di aspettative, sogni e possibilità. Il “Treno del Sole”, la “Freccia del Sud”, oppure la “Freccia della Laguna”, treni dai nomi epici, con vagoni pieni di attese. Immagino che su questi treni abbiano viaggiato anche i nostri compaesani che, non contenti delle condizioni in cui vivevano, andavano a cercare fortuna altrove. Mi sembra di vederli, contadini, manovali, operai che lasciano San Paolo di Civitate alla ricerca di nuove vite, di un lavoro stabile e del benessere di cui tutti allora parlavano.
Come, per esempio, hanno fatto i fratelli Coronato, Michele, Egidio, Alfredo e Antonio che nel 1960 partirono alla volta di Nottingham in Inghilterra per lavorare come manovali in una fonderia. Grazie alle loro capacità e ai risparmi accumulati, dopo qualche anno aprono una gelateria all’italiana e con l’aiuto di Don Camillo istituiscono un’annuale solenne celebrazione in onore di Sant’Antonio da Padova a cui il parroco sanpaolese non mancava mai.
O Luigi Costante, meglio conosciuto con il nome di “p’stulett”, che, agli inizi degli anni Sessanta, partì per Monaco di Baviera in Germania dove ha lavorato prima come apprendista pasticcere e poi come pasticcere professionista. Anche il fratello Fernando è partito da emigrante, ma dopo è tornato a San Paolo dove tutt’ora vive.
Oppure ai coniugi Antonio Palma e Licia Bellino, Benito Vescovi, Ciro Carbone e a tanti altri che sono andati a lavorare in Germania, Svizzera, o nel nord Italia e che dopo anni di sacrifici sono tornati a vivere a San Paolo di Civitate con le loro famiglie. Molti partivano come stagionali, con in tasca il contratto di lavoro e l’indirizzo di un compaesano che poteva ospitarli, altri partivano alla ventura, alloggiavano in locande, a volte in soffitte e baracche, l’integrazione per loro non era facile. Spesso erano guardati con diffidenza e timore.
Nonostante le difficoltà e i disagi, queste persone hanno comunque giocato un ruolo determinante e centrale per l’economia locale. Infatti, in quel periodo a San Paolo di Civitate, grazie ai soldi che gli emigranti mandavano a casa, le cosiddette “rimesse”, si cominciò a costruire una nuova zona abitativa conosciuta con il nome di “Corea”. Dal nord o dall’estero arrivavano puntuali le lettere, poche righe di nostalgia e rassicurazioni e qualche banconota per le spese familiari da affrontare. E così, lettera dopo lettera, il quartiere ha cominciato a prendere forma e il paese ha iniziato a vivere il suo piccolo miracolo economico.
Ma l’emigrazione sanpaolese ha radici profonde, perché molti partirono già durante la cosiddetta “grande emigrazione” (1876-1915), quando 9 milioni circa di emigranti italiani scelsero di attraversare l’Oceano verso le Americhe. Come fece il nostro Antonio Consiglio, barbiere, che intorno agli anni Venti emigrò negli Stati Uniti d’America. Per i suoi meriti divenne membro onorario dell’Ordine dei Figli d’Italia. Fondata nel 1905 come società di mutuo soccorso per i primi immigranti italiani negli Stati Uniti, l’Ordine dei Figli d’Italia è tuttora l’organizzazione più grande degli Stati Uniti per uomini e donne di discendenza italiana.
I fuochi pirotecnici a devozione del Santo sono ormai terminati, un vento impetuoso gonfia i paramenti sacri, creando uno scenario quasi pittorico. Don Dino impartisce la benedizione tra le lacrime di alcuni partecipanti. Mi guardo intorno per osservare i loro occhi e penso che, ieri come oggi, dobbiamo considerare i nostri emigranti degli eroi perché hanno saputo fare a meno delle (poche) certezze della loro terra. Ora tocca a noi, come ha detto don Dino, accogliere l’altro, senza la classica paura del diverso, o lo sguardo superficiale verso lo straniero, ma con il cuore aperto per cercare di capire davvero chi ci troviamo di fronte quando incontriamo un migrante.
Del resto anche Sant’Antonio lo era. La sua terra d’origine era il Portogallo e per amore della Verità venne in Italia, visse un periodo a Dovadola (Forlì), poi a Bologna e infine a Padova, dove morì all’età di 36 anni. Seguiamo il suo esempio, perché siamo tutti migranti. Nessuno di noi è nativo del posto che chiamiamo casa. Gli essere umani si sono sempre spostati. I nostri antenati lo hanno fatto, i nostri contemporanei lo fanno, e i nostri discendenti lo faranno. Forse pensarci come [e]migranti ci offre una via d’uscita da questa distopia incombente. Questa, per me, è una destinazione che merita di essere immaginata. È la sfida e l’opportunità che ci viene offerta: essere [e]migranti per vedere nell’altro la realtà di noi stessi.
Buon caffè antoniano e alla prossima!