San Paolo di Civitate in una domenica d’agosto può svelare molte storie: un pranzo a casa di amici, un pomeriggio sul divano in compagnia di un buon libro, una scampagnata fuori porta, oppure una passeggiata per le strade assolate alla scoperta di luoghi perduti. Scartando le prime ipotesi, decido per la passeggiata. E così domenica scorsa sono uscita per le vie del paese desiderosa di ritrovare un luogo che da bambina mi sembrava grandissimo. Armata di cappello, occhiali e scarpe comode scendo le scale di casa, una luce abbacinante mi colpisce, ma non demordo e mi dirigo verso piazza Aldo Moro, da qui proseguo verso via Vincenzo Malice, poi svolto a destra, mi perdo in strade antiche, e alla fine sbuco vicino alla Chiesa di Sant’Antonio. Avanzo ancora un po’, fino ad arrivare a una specie di voltone. Qui mi fermo, do un’occhiata alle case basse per poi alzare lo sguardo nella speranza di trovare una traccia di quell’edificio che una volta occupava parte del Largo Sant’Antonio. Nulla, nessuna traccia. Del glorioso Cinema Delle Vergini non rimane assolutamente nulla. Com’è possibile, mi chiedo. Com’è possibile che abbiano demolito un cinema senza lasciare un frammento più o meno visibile, una piccola targa per ricordare che lì, per anni, c’è stata una sala che funzionava per la comunità, che era un punto di aggregazione sociale. Com’è possibile che in tutti questi anni non si sia avvertito, sia da parte degli amministratori sia degli amministrati, il bisogno di lasciare un segno, un ricordo dell’istituzione che per oltre cinquant’anni ha rappresentato il Cinema Delle Vergini per San Paolo di Civitate?
All’improvviso mi trovo a dover elaborare una sorta di lutto urbano per ciò che quel luogo ha rappresentato fin dalla sua inaugurazione avvenuta nel 1957 con la proiezione del film Anastasia, diretto da Anatole Litvak e interpretato da Ingrid Bergman, Yul Brynner ed Helen Hayes. Un luogo speciale, che ha ospitato fino al 1991 non solo proiezioni, ma anche conferenze, feste della matricola, concerti musicali, consigli comunali, dibattiti politici, ecc. Non sono un’ingenua e so bene che demolire è prassi del divenire urbanistico, ma quando a essere demoliti non sono comuni abitazioni, ma luoghi centrali e rappresentativi, è come se morisse un po’ tutta la comunità che gira intorno a quel luogo. I cinema sono luoghi della collettività che si fissano nella memoria come icone di un dato momento storico, sono istantanee di una società. La loro demolizione non riguarda solo la perdita di un luogo, ma di un simbolo, di un posto d’affezione di cui resta memoria in chi quel luogo l’ha frequentato. Qualcuno di voi potrà obiettare che il trinomio costruzione-distruzione-ricostruzione è pratica comune nella [tras]formazione di una città. Certo! È evidente che l’abbattimento di un edificio comporta la repentina e immediata sostituzione con un’altra costruzione; tuttavia, questo abbattimento genera (in ogni caso) una ferita urbana che risulta essere persino più difficile da metabolizzare rispetto alla novità determinata dalla nuova costruzione che lentamente prende forma. È evidente che la demolizione assume anche una forte connotazione simbolica, basti pensare al piano di Haussmann per Parigi o alla trasformazione del tessuto urbanistico di Roma operata da Mussolini. Ma abbattere un cinema che sia parigino, romano o sanpaolese ha sempre lo stesso significato: la rottura di un vincolo umano e memoriale con la cittadinanza. Perché sappiamo tutti che il carattere più autentico del cinema è quello di essere per le città, grandi e piccole, una sorta di piazza chiusa, un luogo di ritrovo, e soprattutto di identità collettiva, in quanto deposito di memorie e di storie condivise.
In una società in cui la ricchezza non è data dal valore delle cose ma dal profitto che se ne può ricavare, i cinema non chiudono o spariscono a caso. Se una sala semivuota è un sogno per un cinefilo appassionato, è un incubo per chi, invece, con i biglietti ci deve pagare gli stipendi a fine mese. Sono ben consapevole che la scomparsa del cinema a San Paolo di Civitate è stata causata da una molteplicità di fattori: crisi economica, cambiamento degli stili di vita, politiche economiche recessive, drastica riduzione dei consumi, avvento dello streaming e delle TV on demand. Se penso che in un tempo nemmeno tanto remoto San Paolo di Civitate poteva annoverare oltre al Cinema Delle Vergini anche altri due cinema, mi sento attraversata da un leggero senso di tristezza per la perdita definitiva di questi luoghi. Allora, per non farli cadere completamente nell’oblio, provo a ricordarli per consegnare alle generazioni future narrazioni che, partendo dal passato, sappiano attraversare il presente e gettare un ponte per il futuro.
Il primo cinematografo di cui ho notizia è quello di “Pizzichill”. Il cinema si trovava vicino alla casa vescovile, aveva un esiguo numero di posti a sedere, circa 30-50 sedie. La programmazione offriva solo film in bianco e nero e il sistema di amplificazione audio (rigorosamente mono!) era affidato a un altoparlante posto vicino allo schermo. Il secondo è quello dei fratelli La Piccirella (soprannominato in dialetto “Pulcherj”, in omaggio alla sorella Pulcheria). La sala si trovava in via XX Settembre, angolo via Carlo la Porta, ed era dotata di 3 uscite di sicurezza che, oltre alla loro funzione primaria, svolgevano, durante il periodo estivo, anche da passaggi per il ricircolo dell’aria. D’inverno, invece, si stava freschi naturalmente essendo priva di qualsiasi riscaldamento. I posti a sedere erano circa 80-100 affidati a sedie di legno a strisce con ribalta. La peculiarità di questo cinema era che, d’estate, gli spettatori potevano godersi il film fintanto che le campane della chiesa Madre erano silenziose, ma nel momento in cui cominciavano a scampanare diventava impossibile seguire il film perché il loro rimbombo entrava nella sala attraverso le suddette porte di sicurezza aperte. Se a questo si aggiunge il rumore provocato dai mezzi agricoli di ritorno dai campi, capite bene che il frastuono doveva essere davvero assordante e fastidioso. Frastuono che puntualmente generava lo scontento degli spettatori. Il proiezionista si chiamava Michele Flumeri (meglio conosciuto come “U Niggh”), la mattina lavorava come elettricista, la sera saliva in sala proiezione e dava inizio al film. Era lui a incollare le “pizze”, riavvolgere le bobine, e smontare le parti a fine programmazione.
Poi, nel 1957, arriva lui, il Cinema Delle Vergini, una sala grande, grandissima per l’epoca: ben 200 posti a sedere, impianto stereo e schermo rettangolare di grandi dimensioni. Lo schermo era il fiore all’occhiello di questa sala, perché poteva contenere il formato Cinemascope (formato panoramico) e pertanto era leggermente curvo in quanto doveva realizzare una superficie cilindrica, sul cui asse doveva trovarsi il proiettore. Tre altoparlanti disposti dietro lo schermo in punti adatti davano un effetto stereofonico, mai sentito fino ad allora. La sala era dotata di riscaldamento e di un sistema di luci che si abbassavano di intensità per segnalare l’inizio del film. Ai lati si trovavano diverse uscite di sicurezza nascoste da tendaggi di velluto doppio e segnalate in alto da scritte luminose.
In fondo alla sala c’era uno spazio piuttosto ampio che fungeva da sala da ballo per i matrimoni. Al piano superiore, che abbracciava l’intera area della biglietteria, era ubicata la sala di proiezione, alla quale si accedeva mediante una scala stretta e semibuia. La proiezione era affidata a Michele Delle Vergini. A quei tempi, la pellicola arrivava nel cinema avvolta su un certo numero di piccole bobine, più facili da trasportare ma troppo piccole per essere montate sul proiettore, perciò il signor Michele doveva montarle insieme su un disco grande per poterle poi montare sul proiettore. Questa operazione richiedeva molta attenzione per evitare che il pubblico si accorgesse dell’aggiunta. Chissà quante ne avrà montate, penso. Quante pellicole avrà tagliato, quante “pizze” (ognuna pesava circa 25 chili) avrà caricato e issato a mano? E poi doveva controllare la messa a fuoco, il sonoro, farsi carico insomma di una proiezione perfetta, e in sicurezza. Un mestiere che univa conoscenze tecniche all’italica arte di arrangiarsi. Adesso il computer assolve questi compiti, basta impostare i codici e schiacciare un bottone per far partire il film, ma allora era necessario stare vigili accanto al proiettore, monitorare la “farfalla”, i carboni, la lampada, i salti; e poi le giunte con l’acetone e il nastro adesivo, la paura di un incendio. Tutto per non interrompere l’emozione degli altri. Un mestiere di grande sacrificio, chiuso per molte ore nella cabina che poteva raggiungere temperature molto elevate. Era difficile che il pubblico si accorgesse della presenza del signor Michele all’interno della sala, ma si intuiva che fosse lì, perché lassù, nel rettangolo illuminato, qualcosa si muoveva, prima che uscisse il fascio di luce animato dal pulviscolo e dal grigio danzante del fumo delle sigarette (quando era ancora permesso fumare al cinema!) a tagliare il buio. Ci si accorgeva di Michele quando l’immagine perdeva nitidezza o il sonoro balbettava, e prima che si alzassero le urla del pubblico: “Fuoco!”, “Quadro!”, “Voce!”, lui era già pronto a rimodulare la proiezione.
La luce ora si è ammorbidita, le strade di San Paolo si riempiono nuovamente di suoni e di colori, do un ultimo sguardo al voltone, poi a una bambina che mi osserva curiosa e m’incammino lentamente verso casa. La lentezza concilia il pensiero, mi viene in mente il film Nuovo Cinema Paradiso e la colonna sonora composta dal maestro Ennio Morricone, e penso che un tempo il Cinema Delle Vergini non era solo un luogo dove andare a vedere un film, ma era un luogo vissuto dalla gente, quello che stupiva e meravigliava, quello dove vedere delle immagini sullo schermo suscitava emozioni vivissime e intense. Il cinema Delle Vergini era proprio come il cinema descritto nel film di Giuseppe Tornatore: un luogo privilegiato di socialità e di aggregazione, un luogo dove darsi appuntamento per vivere un’emozione autentica.
E allora mi auguro che a San Paolo di Civitate ci possa essere in futuro un cambio di passo che sappia riportare in paese non dico un nuovo cinema Delle Vergini, ma almeno uno luogo culturale (e di welfare) di qualità, che abbia una maggiore attenzione per le giovani generazioni, che sappia creare nuovi luoghi di aggregazione in una connessione sempre più stretta tra cittadinanza e ambiente circostante. Un nuovo modo di guardare i sogni e le aspirazioni dei suoi abitanti.
Buona fine estate e buon caffè a tutti!
(Ringrazio il presidente Alfredo De Santo per il materiale iconografico e i dati storici e Adriano Grimaldi per avermi fornito il titolo del film.)