Adagiato tra i monti e il mare, appena appena in collina, a guardia del Gargano e Alfiere del Dauno Appennino, Settentrione delle Puglie e primo meridione d’Italia, vive s. Paolo, piccolo centro respirante che pare abbia una lunga e antica storia, ma che nonostante ciò, a volte lo si trova su qualche cartina di larga scala e a volte no. E quando non lo si trova, bisogna capitarci per caso; magari se ci si perde e, all’uscita dell’autostrada per Poggio Imperiale, invece di prendere per Vieste, sbagliando si gira a destra. Ecco, a quel punto inizia la strada per S. Paolo, preceduta da un antico castello di Ripalta.
Ci si potrebbe chiedere cosa ci sia di tanto speciale in un piccolo paesino che nessuno conosce se non per caso; bè dipende, forse tutto, forse niente. E’ certo che come tutti i piccoli paesi, ogni cosa e ogni fatto è un evento e tutti ne sanno in maniera diversa. Qui una storia ha mille varianti a seconda di chi l’ascolta e di chi la racconta. Ognuno ci mette del suo, fino a che ciò che è partito non è per niente affatto uguale a ciò che arriva, se non forse in qualche piccolo dettaglio e particolare. Qualche studioso della natura umana troverebbe certamente interessante il microcosmo di un paesino che riproduce in piccolo atteggiamenti e inclinazioni degli esseri umani.
Qui la vita è come se fosse una specie di grande fratello paesano, gente che vive in una ristretta estensione di territorio, gente che si conosce perfettamente da intere generazioni, gente che sa chi era il nonno, il padre, il figlio, cosa facevano e addirittura il temperamento di ogni nucleo familiare allargato e, prima ancora di nascere, sanno già come sarai, a seconda di chi ti dà i natali.
Chi pensa dunque che qui non succeda mai nulla di interessante, si sbaglia, qui di cose ne succedono in continuazione e, personaggi stravaganti ce ne sono a iosa. Fate dunque attenzione a non sbagliare strada, perché qui sembra tutto placido e tranquillo, ma solo in apparenza e, chi ci capita, di sicuro, nel bene o nel male, ci ritorna. Sarà forse per colpa anche di una certa rughetta di campagna di cui tutti gli abitanti vanno così fieri, sostenendo che ha un sapore tutto suo e che quasi quasi, chi la mangia, non va più via da S. Paolo. Attenti dunque a non sbagliare strada e soprattutto se vi offrono un po’ di rughetta, rifiutate per carità, altrimenti rimarrete anche voi intrappolati in questo piccolo grande fratello vivente e perenne.
Il vero nome di S. Paolo è San Paolo di Civitate (1), nei cui paraggi pare che avvenne una famosa battaglia tra il papato e i normanni (nel 1053 Papa Leone IX venne sconfitto dal normanno Roberto di Altavilla, detto “il Guiscardo” a Civitate). che, vincendo, entrarono in quel mondo incantato che prende il nome di Sud E’ dunque San Paolo di Civitate, non è certo San Paolo di Tarso. E’ San Paolo di Civitate, è un Paolo che appartiene a Civitate e basta. Qui in zona di Santi in verità ce ne sono diversi. C’è Sannicandro Garganico, San Marco in Lamis, San Ferdinando di Puglia, San Michele, San Severo. C’è ancora San Giovanni Rotondo e, quasi a voler simboleggiare quel forte senso di proprietà che caratterizza noi meridionali, anche i santi hanno la loro paternità. Sannicandro è garganico e basta non si discute, San Ferdinando è di Puglia e.., gli appartenenti alle altre regioni non si azzardino a far riferimento a lui, perché è di Puglia, così come San Gennaro è di Napoli e si occupa solo delle faccende di casa sua, che sono già tante in verità e, oltrepassato il territorio partenopeo, non è più di sua competenza, che ci pensi qualche altro santo. Certo che di impegni San Gennaro ne ha davvero tanti, non per ultimi i vari miracoli, le varie grazie e, perfino il lotto è affidato a lui.
- (1)Azzara Claudio, Le Civiltà del Medioevo. p. 143, Il Mulino
Ho vissuto per anni in Emilia Romagna e lì ad esempio nella provincia di Bologna ricordo comuni come Casalecchio, Castenaso, Imola, Osteria Grande e via dicendo, qualche santo compare ogni tanto, per esempio Castel San Pietro, San Lazzaro ma, di certo non battono il nostro primato. Lì sono certo meno miracolati di noi.
San Giovanni Rotondo per esempio che vuol dire? Sarà forse un Giovanni ingrassato grazie al repentino e favoloso boom economico del paese? E questo sì che si può chiamare miracolo. O forse Rotondo perché prima era quadrato? Ma per carità non ci permettiamo di scherzare con i santi, scherziamo con i fanti, ma lasciamo stare i santi. Quanti santi qui. Quale eccezionale esempio di virtù e bontà siamo qui con tutti questi santi.
Comunque dicevo, il senso di proprietà e di appartenenza qui è fortissimo. Siamo portati a definire l’appartenenza di ogni cosa. Questo appartiene a tizio e questo appartiene a Caio. Se sei giovane, ad esempio e qualche persona anziana non ti conosce, ti ferma di sicuro e ti chiede: a chi appartieni? E tu così inizi ad illustrargli l’intero albero genealogico, finché lei non capisce a chi appartieni e risale così a tuo padre a tuo nonno e se è molto anziana perfino al padre di tuo nonno.
C’ è poi un altro metodo più rapido di decodificazione dell’appartenenza, è come una specie di anagrafe informale, un’indagine di tutto rispetto conservata nell’ archivio storico della memoria umana: il soprannome.
Se vuoi farti riconoscere c’è il soprannome. Con quello ti delineano seduta stante lo stato di famiglia e le antiche gesta dei tuoi predecessori. I detentori più autorevoli di tale archivio sono i vecchi. E’ formidabile. Oltre ai vecchi però, molti giovani sono pure custodi di questo bagaglio, anche perché sono proprio loro che da ragazzini si scambiano vicendevolmente appellativi che poi diventeranno ufficialmente soprannomi che porteranno per tutta una vita, lasciandoli in eredità a figli, nipoti e via di seguito.
I soprannomi sono molto più efficaci dei nomi e cognomi ed è, senza dubbio, sicuro che derivino da un atteggiamento, un tratto somatico o qualche altro particolare che caratterizza l’interessato.
Di alcuni ad esempio, è facile capirne l’origine, di altri meno, ma è comunque fuori discussione che sono molto fantasiosi e per la maggior parte delle volte azzeccatissimi, se così si può dire.
Chi pensa poi che al Sud non cambi mai niente, si sbaglia anche in questo caso.
Qui le cose sono cambiate e ancora cambiano, certo non proprio tutto, alcune cose rimarranno sempre tali, a mio parere, ma altre sono cambiate eccome.
La donna, ad esempio, un essere quasi alla stessa stregua degli intoccabili in India, fino a qualche decennio fa, un essere impalpabile, quasi invisibile, nascosta tra le mura domestiche e della quale era bene che non se ne parlasse, nel terzo millennio la donna si è evoluta anche qui. Soltanto qualche decennio fa, poche donne lavoravano e, oltre alle occupazioni di prestigio prettamente femminili come la maestra e prima ancora la levatrice, le altre erano casalinghe ma, era addirittura disdicevole che una donna lavorasse, in parte perché non esistevano i servizi di oggi, quelli che ti crescono i figli mentre tu fai carriera, in parte perché non esistevano occupazioni per le donne, anche perché nei paesi limitrofi non c’era modo di arrivarci in quanto pochissime donne guidavano e poche si azzardavano a prendere la “corriera”. In realtà era soprattutto una questione di mentalità, perché era bene che la donna stesse a casa e, perché non lavorare poteva anche indicare una condizione di privilegio sociale, poteva voler dire agiatezza e spesso solo nei ceti meno abbienti la donna doveva necessariamente lavorare andando in campagna, ad esempio.
Oggi tutto è cambiato. Oggi, al contrario di ieri, la percentuale di donne che lavorano anche fuori è elevatissima, tantissime si spostano in tutta tranquillità e, si sono così emancipate, che non lavorare è quasi disdicevole.
Ora la donna che non lavora è demodé e se non lo fa si sente quasi inutile, così come può sentirsi un uomo disoccupato.
Ricordo che quando ero bambina, venne aperto un bar dove le mogli dei titolari erano dietro al bancone. Quelle furono tra le prime donne ad essere dietro un bancone e, parlo degli anni ottanta. Ricordo che un po’ perché ci piace fare chiacchiere oziose, un po’ perché era vero, rappresentava una strana novità che una donna stesse dietro al bancone di un bar e, anzi, donne che frequentavano i bar, non ve ne erano affatto. I bar erano territorio esclusivamente maschile. Ora, in quasi tutti i bar, dietro al bancone, ci sono donne, non solo, ma è normale che una donna vada al bar a prendere un caffè o quello che più le piace e, nessuno ha nulla da ridire.
Permangono, purtuttavia, purtroppo, ancora strascichi di mentalità piccolo borghese paesana, come ad esempio la conversazione, che ho dovuto sentire, di una donna “altolocata” appartenente al rango dell’ “alta” borghesia e, lo si può certamente notare dagli impellicciamenti vari che è solita indossare (nonostante la nobilissima Ripa di Meana si sia da anni impegnata in campagne a difesa degli animali da pelliccia) e anche dai tacchi a spillo che è solita calzare, anche quando fuori ci sono 0 gradi e fa un freddo cane, la quale soleva affermare che le piacerebbe tanto lavorare ma, che essendo moglie di un certo marito (il suo), non poteva di certo, cosa avrebbe mai detto la gente: la moglie di tizio che lavora? Non sia mai!
Permane quindi ancora nei substrati culturali un certo retroterra di forte meridionalità e provincialismo che, si spera destinato a soccombere davanti a un’evoluzione in realtà un po’ sconclusionata e confusa ma, senza dubbio galoppante.
E’ fuori discussione che il mercato del lavoro rimane ancora quasi interamente nelle mani maschili, forse, tra tutti, sono proprio gli uomini ad adeguarsi con fatica all’emancipazione femminile.
La donna reclama posti di rilievo e, l’uomo non molla. D’altronde è anche normale che se per secoli l’uomo ha gestito il tutto, ora non gli vada di cedere tanto facilmente il posto, anche perché a questi poveretti, gli stiamo togliendo letteralmente i calzoni e ce li stiamo mettendo noi. Non nego che a volte mi fanno quasi pena, un po’ spaesati, non però quando si arroccano in posizioni oltremodo maschiliste (allo stesso modo di quelle femministe), che risultano essere veramente antipatiche.
Gli estremi sono sempre deleteri; il vero progresso e la vera emancipazione mentale si fonda, secondo me, sul rispetto e sull’equilibrio delle parti e dei ruoli, oltre che sulla serena accettazione dei tempi e delle situazioni che cambiano.
Le tradizioni vanno conservate e anzi difese gelosamente, ma il rinnovamento e lo sviluppo culturale, permettono ad un luogo di crescere mentalmente, socialmente, e anche spiritualmente. Prima ancora dello sviluppo economico, c’è, a mio parere, quello culturale, che favorisce il fiorire e l’ampliarsi delle proprie vedute. Lo dimostra il fatto che pur essendoci dei comuni che hanno una buona economia, la mentalità e lo stile di vita risultano invece arretrati. Lo sviluppo culturale consente alle persone di sganciarsi da certi meccanismi stagnanti di condizionamento sociale e paura di fare o, se vogliamo dall’invidia altrui per il semplice fatto di non riuscirci, per una serie di ragioni, personalmente, ed è alla base della crescita a tutto tondo di un posto. Lo dimostra il fatto che le maggiori dittature si sono fondate sull’ignoranza. C’è poi un altro enorme ostacolo alla crescita di posti come il nostro: è la famosa bestia nera del baronato, il famoso sempre vivo baronato, che consiste nell’ostacolare o boicottare forme di iniziativa o concorrenziali. Vere e proprie caste paesane detengono il potere da generazioni e non sono affatto disposte a dare spazio ad altri.
Qui ci sono dei canali ben precisi attraverso i quali arrivare da qualche parte, se non sei dentro quei canali, fai una fatica enorme, non solo, ma ogni iniziativa viene subdolamente ostacolata, anche e anzi soprattutto se è buona. Poi, quando il poveretto che ci ha provato rinuncia, qualcuno di quelli appartenenti alle caste di cui sopra, si appropria dell’idea e la fa sua, con tutti gli appoggi e gli onori, ma quasi sempre lo fa male e in maniera arrangiaticcia, perché l’idea risulta una brutta copia dell’originale.
Una frase che ho sentito spesso è: attenzione che ti fregano l’idea.
Diciamo pure che questo sistema di cose è un po’ caratteristico della nazione in cui viviamo, le caste baronali sono dovunque, anche a Milano, Bologna, Torino…ma a Sud il clientelismo è purtroppo ancora un po’ più diffuso.
SE SUCCEDE QUALCOSA
Cosa succede quando accade qualcosa?
Si organizza una scampagnata al podere di qualcuno e ci va un’intera comitiva.
Ognuno porta qualcosa. Chi la pasta, chi il dolce, ecc.., ma attenti a ciò che dite, attenti a ciò che fate, attenti a ciò che portate e come lo portate, perché prima o poi ci saranno i commenti!
Il primo che va via, è il primo di cui si parla, perché se ne è andato e dunque ora si può parlare. E allora Tizia dice a Caia: hai visto ha portato da mangiare e si è dimenticata di metterci il sale. Caia ribatte: e ma che vuoi, quella non ha mica tempo di fare le cose, deve pensare al vestito, al trucco, ecc…, ecc… E infatti, continua Tizia, hai visto pure il figlio, ha già tre anni e non spiccica una parola. Per forza!! Non sta mai con i genitori, lo lasciano sempre dalla madre di lei. Ah ma dico io, questi prima fanno i figli e poi non se li sanno crescere. Ma le è piaciuto fare quello che ha fatto??! Eh bè cara mia, ora prenditi le tue responsabilità e cresciti tuo figlio! E….ma quelli si sono sposati perché lei è rimasta incinta…e poi scopri che chi ha detto questo, anche lei è rimasta incinta prima di sposarsi e che magari ha tanti di quei problemi che neanche si possono immaginare.
E allora un consiglio: alzatevi da tavola sempre per ultimi, così non solo sentirete tutto quello che viene detto, ma avrete anche minori probabilità che si parli di voi, almeno in quella circostanza.
Naturalmente poi ci si ritrova nella successiva occasione, sempre gli stessi, sempre amorevolmente e come se nulla sia successo o sia stato detto, tanto a turno tocca sempre a tutti.
Un altro esempio: Tizia va a trovare Caia e parla di Sempronia. La vedi sempre in giro, è sempre ficcata nelle case degli altri e racconta, racconta….Io no! A me non piace fare chiacchiere, io non ho mai parlato male di nessuno, quello che so me lo tengo per me.
Io sto sempre in casa, non esco mai…Poi, lei ha sempre la casa in disordine, i panni da stirare.., si dice anche che non cucina mai, vanno sempre a mangiare dalla madre. L’hanno pure sentita litigare col marito per questo motivo.
Passa qualche giorno e guarda caso Sempronia lo viene a sapere. Allora va da Tizia e le dice: cosa vai dicendo di me? Tutto il paese sa che hai sparlato di me. Io? Dice Tizia, io non ho mai parlato male di nessuno. Chi te l’ha detto? Adesso me lo devi dire, perché se c’è certa gente che si premette di inventarsi bugie sul mio conto, me lo devi dire. Sempronia fa capire da chi l’ha saputo. Chi te l’ha detto? Caia? Proprio quella, che non fa altro che andarsene in giro dalla mattina alla sera, guarda che mi possano cecare! Proprio lei che non fa niente tutto il giorno…,ecc.., ecc…E così Tizia telefona a Caia e gliene dice di tutti i colori. Caia telefona a Sempronia e gliene dice di tutti i colori. Sempronia telefona a Tizia che poi ritelefonerà a Caia…e la cosa non finisce più…..finché non giunge un’ altra pasquetta e allora tutti pronti a fare la scampagnata, a mangiare insieme, ognuno porta qualcosa, magari senza sale, c’è sempre chi se ne va per primo e….tutto ricomincia.
I cinquantenni di oggi, negli anni settanta erano i giovanissimi di S. Paolo, avevano quindici anni, ma anche i sessantenni erano giovani e anche i settantenni. Negli anni settanta erano tutti giovani!
Ma questi anni settanta che a pensarci sono passati ieri, erano così diversi da oggi.
Si contavano sulla punta delle dita i giovani che all’epoca avevano la macchina. Ora i giovani ce l’hanno tutti, e che macchine!
Ragazze che guidavano non ce n’erano, mentre ora tantissime hanno la patente. In giro si vedevano donne vestite di nero col fazzoletto in testa, il famoso: “maccaturo” e questo fino ai primi anni novanta. Era il lutto.
Quando moriva un parente stretto, gli uomini mettevano il bottoncino appuntato sulla giacca, mentre le donne si vestivano completamente di nero e, portavano questo abbigliamento per tutta la vita. Si vedevano tantissime donne vestite in quel modo, tanto che sembrava di essere in Afghanistan. Ora passati poco più di vent’anni, nessuno si veste così, nemmeno le donne più anziane e, anzi mi sembra che il lutto in generale non si usi nemmeno più. Pensate anzi che qualche anno fa, rimasi un attimo interdetta nel vedere una vedova fresca di giorni, attraversare la piazza vestita completamente di rosso. Certamente, questo è un segnale di evoluzione dei costumi, la vedova in rosso è non pervenuta, come le città di cui al meteo non si riesce a registrare la temperatura. Comunque è certo, dicevo, un’evoluzione nei costumi e di mentalità, nessuno si sente più giudicato o peggio condannato se non porta il lutto, mentre prima era un dovere e, se qualcuno non lo faceva era additato. Anche le ragazze più giovani, nemmeno maggiorenni, se gli moriva un parente vicino, si vestivano di nero ed, era un po’ triste vedere ragazze di sedici o diciassette anni vestite così.
Quest’usanza sembra dunque scomparsa e mi sembra anche silenziosamente, senza tanto clamore.
Come si può ben vedere, i tempi cambiano anche qui..,forse lentamente..ma cambiano.
Io appartengo ai nati durante la rivoluzione femminista, i movimenti studenteschi, il primo uomo sulla luna. Eppure compiuti i diciottenni, ero forse la prima o comunque tra le prime ragazze a guidare e addirittura possedere un’auto, le mie amiche non l’avevano, nemmeno le compagne di scuola.
Proprio in occasione della mia maggiore età, un mio zio mi aveva regalato una splendida cinquecento; un gioiellino, con la quale scorazzavo a destra e sinistra, avevo imparato perfino a fare la doppietta. L’avevo poi barattata con una vacanza strappata a mio padre, anche se il rammarico era stato grande. Comunque era l’apoteosi della libertà, ci andavo perfino a scuola, parcheggiavo fierissima lì davanti e mi sentivo davvero gagliarda.
Quando poi cambiai macchina, il meccanico mi disse: che peccato, eri troppo forte quando passavi qui davanti a tutto gas con la tua cinquecento. Riaprendo con le sue parole, inconsapevolmente, una mia ferita.
E comunque i tempi cambiano eccome. Ricordo, ad esempio, quando cominciai a fare i primi concorsi pubblici, erano gli anni novanta. Bisognava fare i salti mortali. Di Internet..nemmeno l’ombra, figuriamoci! Bisognava allora andare in comune o in qualche biblioteca e trovare la gazzetta ufficiale che pubblicava il bando, poi fotocopiarlo e riscrivere la domanda.
Non esisteva l’autocertificazione, tale per cui, la firma andava autenticata da un impiegato comunale, previa presentazione di un documento di riconoscimento e, i titoli posseduti, andavano presentati tutti ad uno ad uno. Se era il diploma, si doveva contattare l’istituto superiore, fare domanda e dopo qualche secolo si riceveva quanto richiesto, in originale o copia sempre autenticata.
Se facevi in tempo, riuscivi a fare domanda, sennò eri fregato. Insomma fare un concorso era un concorso già di per sé.
Poi arrivò la benedetta legge Bassanini sulla semplificazione amministrativa e, allora si dichiarava, sotto la propria responsabilità, di possedere i titoli giusti, senza doversi esaurire a destra e manca per cercarli ad uno ad uno. Ed era il 1997.
Altro enorme cambiamento: il cellulare. Oggi ce l’hanno veramente tutti. Perfino i bambini di dieci anni che conoscono i modelli migliori e più sofisticati.
Ma negli anni novanta, vedere qualcuno con il cellulare era qualcosa di straordinario. Io il mio primo cellulare lo acquistai nel 1994, e somigliava ad un citofono. Poi non era mica così semplice, perché ora si comprano le schede ricaricabili e via, ma prima, non esistevano schede e, per attivare il cellulare, dovevi avere un conto corrente in banca, trasmettere alla compagnia di telefonia mobile (che all’epoca era rigorosamente Tim), trasmettere, dicevo, gli estremi del conto, lasciarle il tuo indirizzo con tanto di fotocopia di documento, poi ogni mese ti arrivava a casa la bolletta da pagare.
E insomma anche questa era un’impresa, che fatica!
Ecco perché avere il cellulare negli anni ottanta o novanta era veramente uno status simbol. Avere il cellulare in quegli anni, significava agli occhi di chi ti guardava, essere un benestante, anche se magari non era così e, chi aveva il cellulare, non perdeva occasione per sfoggiarlo in luogo pubblico, gonfiandosi come un pavone, parlando a voce alta e facendo avanti e indietro finché non veniva notato.
Ora il cellulare ce l’hanno, scusate l’espressione, cani e porci. Non solo, ma finché non esisteva, non serviva a nessuno, ora non se ne può più fare a meno (e quante tresche scoperte poi per colpa del cellulare..!). I giovani di oggi sono, ormai un tutt’uno con il cellulare: si parlano, si scambiano idee, si danno appuntamenti, si innamorano attraverso il cellulare e senza nemmeno chiamarsi, il tutto avviene attraverso i “messaggini” e, sono velocissimi a scriverli, io ci metto un anno, loro sono fulminei! Li vedi in preda ad una frenesia acuta intenti ad inviare e ricevere SMS. Usano poi un linguaggio tutto loro, fatto di sigle puntate come t.v.b., t.v.t.t.b., oppure t.v.u.k.d.b., che vuol dire: ti voglio bene, ti voglio tanto bene, ti voglio un casino di bene. E bè sì, è davvero molto romantico ricevere un messaggino con su scritto t.v.u.k.d.b.!
Non parliamo poi della moda. I giovani del duemila si vestono con i pantaloni a zampa di elefante e, le ragazze mettono le zeppe e, forse non sanno che quell’abbigliamento lo indossavano anche i loro genitori, perché i genitori dei quindicenni nel duemila erano i quindicenni degli anni settanta, anni in cui per l’appunto si usavano le zeppe e i pantaloni a zampa di elefante. E già “è un’Italia che va” diceva Caputo in una sua canzone. Comunque torniamo a S. Paolo. Anche qui la frenesia da cellulare non ha risparmiato nessuno, meno che meno i giovanissimi. Ma anche i settantenni, che, magari non sanno usarlo.., lo possiedono.
E non è emancipazione questa? Non è costume che cambia?
Altro che maccaturo…. Altro che Sud!!